A quasi 50 anni dalla morte della madre, Giuseppe Cesaro le scrive una lettera, trasformando il dolore di adolescente e di uomo in riflessioni sul senso della vita in cui anche la morte trova una sua dimensione
Il titolo dell’ultimo libro di Giuseppe Cesaro è tanto emblematico quanto enigmatico. “Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancor di più, la tua voce” non è un semplice romanzo autobiografico dedicato alla mamma Giuliana, al papà Giacomo, al fratello e alla sorella Giovanni e Maria Benedetta.
All’interno di esso, le vicende personali diventano “occasioni” per scrutare oltre certi orizzonti che potrebbero ingannare i più disattenti.
Possiamo leggere questo libro in diverse intensità e velocità. C’è chi potrebbe intenderlo come una lettera di addio a una mamma morta troppo presto. Oppure, c’è chi potrebbe trovare il dolore di una persona più volte ingannata dalla vita. O ancora, c’è chi potrebbe leggere tra le righe una dichiarazione d’amore alla stessa vita, madre e matrigna, da vivere nella sua vera essenza.
“Ero un bambino. Il tuo bambino…”
Il talentuoso Cesaro ha voluto pubblicare una lettera indirizzata alla madre morta a causa di un tumore, quasi mezzo secolo fa, quando lui era ancora adolescente costretto a vivere un percorso doloroso già in tenera età.
La scrittura è un susseguirsi di immagini della vita di una persona: bambino, ragazzo e poi adulto, all’interno di una famiglia come tante, ma è come se si scrutasse con l’occhio magico dentro la casa di una famiglia perbene della nostra società dal dopoguerra in poi.
Non c’è giudizio nel tratteggiare le vicende e i personaggi, ma solo pensieri finalmente liberi e tenuti dentro per molto tempo.
Contrariamente a ciò che si potrebbe supporre, non si usa un tono meramente drammatico o tragico. C’è al suo interno quasi un senso di gratitudine nei confronti della vita nonostante tanto tenera e giusta non sia stata. La morte prematura della sorellina Marta quando lui era ancora bambino, la malattia della madre Giuliana quando era adolescente, la paura di perdere anche il padre Giacomo per un malore improvviso quando era un giovane uomo e poi, quasi a chiudere un cerchio impietoso del destino, la morte della moglie Evelina e la responsabilità di crescere due figli piccoli da solo: Marta e Giacomo.
Il susseguirsi degli stessi nomi nei decenni pare una risposta alla morte che lascia spazio a una nuova vita.
È quindi una lettera sincera, piena di pensieri profondi e di spunti da elaborare sulla vita e sul suo esatto seguito naturale.
Non c’è l’accettazione della morte come se fosse il rovescio della stessa medaglia della vita, come una conseguenza naturale, ma c’è il cercare di riempire il vuoto – o meglio – i vuoti che si vengono a creare per via dei lutti: c’è sempre il quotidiano che non fa dimenticare e riapre e chiude le ferite continuamente.
Gli ultimi istanti di vita di una persona cara per Cesaro diventano così parti di un viaggio di ricordi e di emozioni profonde. Come cartoline di quel viaggio, i capitoli brevi, ma concentrati, ci proiettano in un teatro dove ogni singola mise-en-scene diventa un atto compiuto e ci ferma all’ultimo scatto di una fotografia che resta per sempre in memoria. Così sono i ricordi del nonno che collezionava i telegrammi di condoglianze oppure l’immagine, l’ultima, della mamma morta sul letto della casa dei nonni e il susseguirsi dei pensieri.
“Non ho la minima idea di cosa sia la morte per chi muore”
I ricordi di un ragazzo si mescolano alle riflessioni di un uomo maturo capace di elaborare il senso della morte e della vita. La fine della nostra esistenza è un cambiamento dovuto allo scorrere naturale della vita stessa in cui si raggiunge la consapevolezza maccanicistica che tutto prima o poi si perde; che nella vita tutto diventa “passato” e che “l’immortalità” dei sentimenti, delle persone, è un’utopia perché viviamo sempre in ciò che è il presente. Il passato però ci forma (o ci deforma) soprattutto se le esperienze più importanti le fai da bambino e da adolescente.
Un bambino non dovrebbe mai conoscere gli odori di ospedali, di diagnosi mediche e non dovrebbe mai venire a contatto con il dolore, con il lutto. Se questo succede è quasi impossibile non restare coinvolti nella crescita psicologica e affettiva. Eppure c’è sempre una rinascita ad attenderci nonostante la rabbia e la delusione.
Sin da bambino la malattia entra nella vita della sua famiglia sconvolgendone i tratti di tutti i componenti, collezionandone immagini di un dolore che non si rimargina mai. Ci sono ricordi così nitidi che sembra vivano in un eterno presente.
La morte della sorellina Marta quando lui era ancora bambino si mescola con i ricordi di altre malattie e di altre morti. Il dolore però diventa occasione per celebrare la vita o per maturare i pensieri.
Giuseppe Cesaro: “È un abisso. E ognuno lo affronta come può”
Non è stato facile neanche per Giovanni e Maria Benedetta subire la perdita della mamma così presto, senza conoscere il reale motivo. Così Giuseppe e i suoi fratelli hanno dovuto scoprire da soli cosa fosse realmente “il grande male” che aveva portato via la mamma.
Il silenzio ha fatto parte della sua famiglia rompendosi solo quando gli attori intendono raccontarsi. È così che Giuseppe scopre tante cose del padre solo in punto di morte. I ricordi nebulosi si mescolano al presente solo quando il padre gli racconta alcune cose della sua vita di professore e di scrittore.
Ci sono tanti artisti che hanno dedicato pagine di libri e di musica ai genitori, ai figli, alla morte. Attraverso lo scritto di Cesaro anche la figura del padre assume un ruolo importante grazie ai ricordi e alle emozioni. Se da bambini un papà è solo un papà, da adulti quello stesso padre cambia pelle poiché si è ormai consapevoli di quanto al dolore di marito vedovo si aggiunga il carico di responsabilità per crescere i figli da solo.
La figura del padre di Giuseppe Cesaro ha un ruolo importante nel racconto scritto nella lettera. È una persona colta, impegnata in politica, un professore con un passato giovanile vissuto durante il fascismo. Anche in questo caso, nel raccontare la sua storia la figura femminile emerge, ma in altri tempi e in altri luoghi.
Una figura importante quella di Giacomo Cesaro che, nonostante appaia distante e realista, ha invece molto in comune con il figlio Giuseppe: l’intensità dei pensieri e il guizzo creativo.
Per alcuni tratti, la figura di papà Giacomo ricorda il papà di un romanzo precedente: “Indifesa“. Un nucleo familiare in cui, nonostante i conflitti interni, c’è sempre la ricerca di un porto sicuro e dell’accettazione.
Il tema della perdita ritorna perché il destino non ha avuto con lui uno sguardo pietoso e chiude un cerchio colmo di dolore con altri lutti simili tra loro e altre perdite.
Cesaro però riesce a esorcizzare il lutto personale in qualcosa alla quale tutti possono attingere.
Lui non è nostalgico né erge totem: le sue riflessioni nascono da quel dolore che ogni tanto si fa sentire perché non tutte le ferite si chiudono. Alcune non lasciano un segno, altre lasciano una cicatrice; altre ferite si aprono sempre. Eppure, parafrasando un artista illustre, “si respira anche dalle ferite” che sanno appunto di vita.
A cercar di dare un senso alle parole
Giuseppe Cesaro non è solo un abile “utente” delle parole. Lui sa come usarle bene. È anche ghost-writer di libri di successo, è un valido collaboratore ai testi di Claudio Baglioni, è musicista e giornalista. Vive di parole e la sua scrittura è anche facilmente riconoscibile nella forza che mette nella scelta di ogni singolo vocabolo.
Spero di rileggere altri suoi libri, se lo vorrà. Già con “31 aprile” diede vita a un romanzo straordinario che lasciava presagire una saga.
Generalmente si conclude con la fine di un libro. Poichè questo non ha una reale fine, io invece vorrei farlo con la prefazione scritta da Pupi Avati che coglie l’essenza di ciò che Cesaro ha scritto: ” (…) mood di sublime dolcezza e tuttavia straziante afflizione che Cesaro ci offre in questo suo stato di grazia assoluta.”
“Fatico a ricordare il tuo viso. E, ancor di più, la tua voce” (La Nave di Teseo – Oceani – 2025)
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