Cosa ha veramente scritto il Financial Times: la cucina italiana non è in pericolo

Il governo italiano candida la cucina italiana patrimonio unesco (fonte: ministro Lollobrigida Facebook)

Sta facendo molto discutere l’articolo apparso sul Financial Times che letteralmente smonta tante certezze riguardo le tradizioni della cucina italiana.

Ciò che sorprende di più è che a farlo siano proprio due italiani, sebbene attraverso le pagine di un prestigioso quotidiano economico inglese.

Dopo la pubblicazione dell’intervista della giornalista Marianna Giusti sulla pagina Instagram del magazine britannico, si sono scatenate delle vere e proprie polemiche. Anche il Coldiretti si è scagliato contro il contenuto dell’articolo perché questa “bomba” arriva in concomitanza della notizia della proposta di eleggere la cucina italiana patrimonio immateriale dell’Umanità Unesco.

La giornalista Marianna Giusti del FT ha intervistato lo storico dell’alimentazione Alberto Grandi il quale afferma che la cucina italiana si basa su bugie ben raccontate.

L’autore di DOI afferma, ad esempio, che la nostra pizza, l’iconica carbonara e il Parmigiano sono più americani che italiani.

Abbiamo tradotto per intero l’articolo in italiano in modo da far conoscere il contenuto anche a chi non conosce la lingua inglese.

“Tutto ciò che pensavo come italiana sul cibo italiano è sbagliato”

Dal panettone al tiramisù, molti “classici” sono invece di recente invenzione, come dimostra Alberto Grandi.

Parma è tranquilla di notte. L’uomo seduto di fronte a me è paranoico: “Qualcuno potrebbe sentire ciò che diciamo.”

 

“Qui mi odiano”, spiega con voce sommessa.
Controlla dietro di lui, ma l’unica persona nell’osteria è una cameriera che è indifferente nei nostri confronti da quando ci ha servito il nostro ossobuco.
Il profumo del midollo arrosto aleggia sul tavolo. La cover di Amy Winehouse di “Valerie” suona da una radio lontana.

“Posso parlare male di loro?” chiede. Gli dico che può. Dopo tutto, non è stato invitato qui per smascherare le frodi aziendali, è venuto per dirmi la verità sul parmigiano.

L’uomo con cui sto cenando si chiama Alberto Grandi, accademico marxista, riluttante celebrità podcast e giudice alla Coppa del Mondo di Tiramisù di quest’anno a Treviso (“Non me lo perderei, anche se avessi un appuntamento per cena con il Papa”).


Grandi ha dedicato la sua carriera a sfatare i miti del cibo italiano; è la prima volta che parla alla stampa straniera.
Quando il suo libro del 2018, “Denominazione di Origine Inventata”, ha iniziato a vendere in Italia, il suo amico Daniele Soffiati gli consigliò di registrare un podcast spin-off.

Sin dall’anno di nascita nel 2021, lo spettacolo, chiamato DOI dopo la pubblicazione del libro, ha visto tre stagioni e più di un milione di download.

Molti “classici” della cucina italiana, dal panettone al tiramisù, sono invenzioni relativamente recenti

La particolarità di Grandi consiste nel fare affermazioni audaci sui prodotti nazionali. Ad esempio, che la maggior parte degli italiani non aveva sentito parlare di pizza fino al 1950, che la carbonara è una ricetta americana.

Molti “classici” italiani, dal panettone al tiramisù, sono invenzioni relativamente recenti, secondo lui.
Alcune delle affermazioni del DOI potrebbero essere note agli addetti ai lavori nel settore, ma la maggior parte sono basate dal risultato elaborato da Grandi, estratte dalla letteratura accademica esistente.

La sua abilità consiste nel fare ricerca accademica e renderla accessibile a tutti. E la sua missione è quella di sconvolgere le fondamenta su cui noi italiani abbiamo costruito la nostra famosa, e notoriamente inflessibile, cultura culinaria, una scena gastronomica in cui il cappuccino non deve essere bevuto dopo mezzogiorno e le tagliatelle devono avere una larghezza di 7mm esatti.

Tradizione e autenticità corrispondono a verità?

Grandi si è reso impopolare in alcuni ambienti criticando il potente settore food and drink italiano, che, secondo alcune stime, rappresenta un quarto del PIL.
Sul podcast, scherzando dice che dovrebbe uscire di casa solo con un “bodyguard”, come Salman Rushdie.
Nel 2019, l’ambasciatore italiano in Turchia ha rimproverato Grandi in una conferenza ad Ankara dopo che aveva ridicolizzato le 800 denominazioni protette italiane, prodotti la cui qualità è riconosciuta dall’UE come inestricabilmente legata alla loro area.
Al festival letterario Les Mots di Aosta nel 2018, è stato attaccato da un presentatore romano che, offeso dalle affermazioni di Grandi sulla carbonara, “lo chiamò con ogni appellativo” davanti a un pubblico incredulo.

L’hype intorno alla cucina italiana

Da italiana che vive all’estero, sapere da un esperto che la nostra cucina, con la sua reputazione per tradizione e autenticità, è in realtà basata su bugie, mi sento come se fossi tradita per un segreto di famiglia tenuto ben nascosto, ma che avevo sempre sospettato.

Ho sempre odiato l’hype intorno cibo italiano, sia se creato da amici stranieri inquietanti e appassionati come il newyorkese esperto in ricette regionali di pasta di nicchia o da compatrioti imbarazzanti e pedanti come il mio amico napoletano che si rifiuta finanche di toccare pomodori freschi nel Regno Unito. Ero divertita e perplessa quando si verificarono gli acquisti forsennati durante i primi lock-down per il Covid-19, sapere che gli scaffali dei supermercati italiani erano stati svuotati di tutto eccetto le penne lisce, considerate dagli italiani di qualità inferiore.

“È tutta una questione di identità”, mi dice Grandi tra i vari bocconi di ossobuco.
È un devoto di Eric Hobsbawm, lo storico marxista britannico che scrisse di ciò che chiamò l’invenzione della tradizione. “Quando una comunità si trova privata del suo senso di identità, a causa di qualunque shock storico o di una frattura con il suo passato, inventa tradizioni per agire come fossero fondamenta di miti”, dice Grandi.

Dal 1958 al 1963, durante il boom economico che seguì dopo anni di povertà causata dalla guerra, l’Italia vide lo stesso tipo di progresso che il Regno Unito aveva visto nel corso di un secolo durante la rivoluzione industriale, dice Grandi.
“In pochissimo tempo, gli italiani che avevano avuto il loro pane razionato improvvisamente vivevano di abbondanza. Questo livello di ricchezza era completamente imprevisto e a loro sembrava infinito.”
La nazione aveva bisogno di un’identità che la aiutasse a dimenticare le guerre trascorse, mentre coloro che erano emigrati in America avevano bisogno di miti che dessero dignità alle loro umili origini.

Il panettone

Il panettone è un esempio lampante. Prima del XX secolo, il panettone era una focaccia sottile e dura riempita con una manciata di uvetta. Era mangiato solo dai poveri e non aveva legami con il Natale. Il Panettone per come lo conosciamo oggi è un’invenzione industriale. Negli anni ’20, Angelo Motta, del marchio alimentare Motta, introdusse una nuova ricetta di impasto e diede inizio alla “tradizione” di un panettone a forma di cupola. Poi, negli anni ’70, di fronte alla crescente concorrenza dei supermercati, i panifici a conduzione privata iniziarono a produrre panettoni a forma di cupola. Come scrive Grandi nel suo libro, “Dopo un bizzarro viaggio a ritroso, il panettone è finalmente diventato quello che non era mai stato prima: un prodotto artigianale.”

Il tiramisù

Il tiramisù è un altro esempio. Le sue origini recenti sono mascherate da varie storie frutto di fantasia. Apparve per la prima volta nei libri di cucina negli anni ’80. Il suo ingrediente principale, il mascarpone, si trovava raramente al di fuori di Milano prima degli anni ’60; i biscotti bagnati nel caffè che dividono gli strati erano i Pavesini: uno biscotto da supermercato lanciato nel 1948. “In un paese normale,” dice Grandi con un sorriso, “a nessuno importerebbe dove (e quando) è stata inventata una torta.”

Il Parmigiano

Il parmigiano, dice, è straordinariamente antico, risale a circa un millennio fa. Ma prima del 1960, le ruote di formaggio parmigiano pesavano solo circa 10 kg (a differenza delle pesanti ruote da 40 kg che conosciamo oggi) ed erano racchiuse in una spessa crosta nera.
La sua consistenza era più grassa e più morbida di quanto non sia oggi. “Alcuni addirittura dicono che questo formaggio, come segno di qualità, avrebbe dovuto avere una goccia di latte nel momento in cui veniva pressato”, afferma Grandi. “La sua esatta corrispondenza moderna è il parmigiano del Wisconsin.”
Egli ritiene che i primi immigrati italiani del XX secolo, probabilmente provenienti dalla regione Po, a nord di Parma, iniziarono a produrla nel Wisconsin e, a differenza dei casari di Parma, la loro ricetta non si evolse mai. Così, mentre il Parmigiano in Italia è diventato negli anni un formaggio a pasta dura e crosta chiara prodotto in ruote giganti, il parmigiano del Wisconsin è rimasto fedele all’originale.

La cucina italiana è veramente quella americana?

Nella storia del cibo italiano moderno, molte strade portano in America. La migrazione di massa dall’Italia verso gli Stati Uniti ha prodotto culture gastronomiche così profondamente intrecciate che è impossibile discernere l’una dall’altra. “La cucina italiana è davvero più americana che italiana”, dice Grandi.

La Pizza

La pizza è un altro ottimo esempio. “I dischi di pasta conditi con gli ingredienti”, come li chiama Grandi, erano noti in tutto il Mediterraneo per secoli. Parliamo della piada, pida, pita, pitta, pizza.
Ma nel 1943, quando i soldati italo-americani inviati in Sicilia risalirono la penisola italiana, scrissero a casa increduli: non ci sono pizzerie.
Prima della guerra, mi racconta Grandi, la pizza si trovava solo in alcune città dell’Italia meridionale, dove veniva fatta e mangiata per strada dalle classi inferiori. La sua ricerca suggerisce che il primo vero e proprio ristorante che servì solo pizza fu aperto non in Italia, ma a New York nel 1911. “Per mio padre negli anni ’70, la pizza era tanto esotica quanto il sushi oggi”, aggiunge.

I ricordi di chi ha vissuto la guerra e il boom economico

Dopo l’incontro con Grandi, vado a trovare mia nonna di 88 anni, Fiorella Tazzini, a casa a Massa, in Toscana. Lei è ben vestita, come sempre, con una camicia color crema inamidata e un cardigan nero. Nonna Fiore, come la chiamano i suoi nipoti, ci versa una tisana e mi porge un piatto di biscotti. Il tè emana il profumo rilassante della melissa. Ci sediamo nella stessa cucina perfetta con le sue tende a motivi geometrici degli anni ’60 dove, quando ero bambina, a volte mi faceva mangiare roba surgelata, e strizzando l’occhio diceva: “Non dirlo a tua madre!”

Mozzarella e pizza solo al sud d’Italia

“Mi ricordo la prima pizzeria che ho visto”, racconta. “Devo avere avuto 19 o 20 anni, a Viareggio, a mezz’ora da casa. La prima volta che ho visto una mozzarella è stato più tardi, deve essere stato nel 1960; tua madre era già nata. È stato quando hanno aperto un supermercato qui.”

La mozzarella viene dal sud Italia, a centinaia di chilometri di distanza. Per saperne di più, chiamo la prozia siciliana di un amico, novantacinque anni e un po’ sorda. Serafina Cerami risponde subito al telefono: “Abbiamo mangiato molta mozzarella in Sicilia prima della guerra!” grida al telefono. Come la pizza, la mozzarella è stata versata nell’imbuto della migrazione di massa della gente del sud Italia verso America.

Il mainstream vuole una cucina italiana per standard

Confrontando i suoi ricordi con quelli di mia nonna, è chiaro che i piatti importanti “domenicali” della Sicilia (parmigiana di melanzane, cannoli, pasta con le sarde) sono quelli che oggi sono mainstream, grazie al contributo del delle Little Italy negli Stati Uniti.
Mia nonna, invece, è cresciuta mangiando i tortelli alla Massese (grandi tortelli freschi con ripieno di carne, cotti in salsa ragù) e con i cappelletti in brodo (tortelli freschi in brodo di pollo), piatti quasi sconosciuti al di fuori della regione.

Il cibo durante la guerra

Sia la signora Cerami in Sicilia che mia nonna in Toscana ricordano di aver mangiato molti fagioli e patate prima della guerra; e sicuramente non sono ingredienti tradizionalmente associati alla cucina italiana. Grazie a un crescente apprezzamento delle cucine regionali più povere, il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno riabilitato gran parte delle ricette della cucina povera, come lo gnocco fritto dell’Emilia, la pappa al pomodoro della Toscana e la polenta del nord.

La storia della Carbonara fa discutere

Secondo Grandi, la storia della carbonara racchiude perfettamente l’idea di Hobsbawm di “invenzione della tradizione”. Per fare luce su questo must italiano, chiamo Bernardino Moroni, il nonno di 97 anni di un amico romano.

“Abbiamo mangiato la pasta solo la domenica”, dice in una videochiamata da casa sua a Morlupo, in provincia di Roma. I suoi pasti da bambino erano principalmente: minestra, fagioli e verdure dell’orto di famiglia.

Quando gli chiedo della carbonara, un baluardo della cucina romana, non guarda l’obiettivo della telecamera. “Forse una volta all’anno mangiavamo amatriciana (una ricetta a base di pomodoro con pancetta) quando potevamo permetterci di uccidere un maiale. Ma non avevo mai sentito parlare di carbonara prima della guerra.”

Questo perché, come dice lo storico del cibo Luca Cesari, autore di “A Brief History of Pasta”, la carbonara è “un piatto americano nato in Italia” e non era conosciuto prima della seconda guerra mondiale.
La storia su cui la maggior parte degli esperti concordano è che uno chef italiano, Renato Gualandi, lo fece per la prima volta nel 1944 in una cena a Riccione per l’esercito americano e per alcuni ospiti, tra cui Harold Macmillan.

“Gli americani avevano una pancetta favolosa, ottima panna, formaggio e tuorli d’uovo in polvere,” come Gualandi ha successivamente ricordato. Cesari respinge i miti secondo cui la carbonara era il cibo dei carbonai italiani del XVIII secolo, definendolo “storico”.

Per gli italiani nati dopo anni di boom, la carbonara è un insieme di ingredienti da rispettare in toto: guanciale di maiale, pecorino romano, uova e pepe. Ma le prime ricette sono sorprendentemente varie.
La più antica è stata stampata a Chicago nel 1952 e conteneva pancetta italiana, non guanciale di maiale. Le ricette italiane di quello stesso periodo includono di tutto: dal gruviere (1954, sulla rivista La Cucina Italiana) a “prosciutto e funghi saltati a fette sottili” (1958, il ristorante Tre Scalini di Roma). Il guanciale di maiale ha sostituito la pancetta dopo il 1990.

Ma è la carbonara che provoca alcuni dei più estremi dogmatismo culinario. Molti italiani oggi imparano a cucinarla in casa secondo una serie di regole che la collocano nel contesto “della tipica pasta romana”, accanto a cacio e pepe, gricia e amatriciana.
L’idea è che l’aggiunta o la sottrazione di ingredienti specifici trasformi un piatto di pasta classica in un altro, e qualsiasi cambiamento dalle regole è una questione di interesse nazionale.

L’amatriciana


Nel 2015, la città di Amatrice ha rilasciato una dichiarazione ufficiale per correggere lo chef stellato Carlo Cracco dopo aver rivelato che gli piaceva mettere l’aglio nella sua amatriciana. “Siamo sicuri che questo sia stato un lapsus da parte del celebre chef ,” in risposta a Cracco. “Siamo certi che intendesse altro.”

C’è un lato oscurantistico nell’atteggiamento spesso ridicolo dell’Italia verso il purismo culinaria.

I tortellini fatti con la carne di pollo


Nel 2019, l’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, suggerì di aggiungere alcuni “tortellini di benvenuto” senza carne di maiale al menu alla festa di San Petronio della città. Sarebbe dovuto essere un gesto di inclusione, invitando i cittadini musulmani a partecipare alle celebrazioni del santo patrono della città. Il leader della Lega di estrema destra Matteo Salvini non era d’accordo, dichiarando: “Stanno cercando di cancellare la nostra storia, la nostra cultura”.

Quando Grandi intervenne per chiarire che, fino alla fine dell’Ottocento, la farcitura dei tortellini non conteneva carne di maiale, il presidente del consorzio dei tortellini bolognesi (un vero e proprio lavoro) confermò che Grandi aveva ragione. Nelle ricette più antiche, il ripieno di tortellini era fatto di pollame. “Questo è il motivo per cui faccio quello che faccio”, dice Grandi. “Dimostrare che ciò che salutiamo come tradizione non è, di fatto, tradizione.”

La cucina italiana e la politica

Oggi, il cibo italiano è come un leitmotiv per i politici della destra quanto erano le giovani donne e il calcio nell’era di Berlusconi.


Durante la sua campagna elettorale nel 2022, il primo ministro Giorgia Meloni pubblicò un video su TikTok in cui una anziana signora le insegnava come chiudere i tortellini a mano.
Questo mese, il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida, ha suggerito di istituire una task force per monitorare gli standard di qualità nei ristoranti italiani di tutto il mondo. Egli teme che gli chef possano sbagliare le ricette, o utilizzare ingredienti che non siano italiani. (i “prodotti alimentari tradizionali” ufficiali sono un numero sconcertante: 4.820.)

Facendo una ricerca su Google di “Salvini Mangia” si propongono immagini come in un carosello farsesco. Si vede l’ampia bocca di Salvini che divora spaghetti; poi un sorridente Salvini imboccarsi in una pizza gigante; Salvini che indossa un grembiule e controlla file di intere di prosciutto; Salvini con il pollice alzato accanto a cannoli siciliani; carne alla griglia con Salvini a torso nudo; Salvini abbronzato che ingurgita un cono di gelato; Salvini assonnato che morde un toast alla Nutella.

Questi politici comprendono il potere di ciò che Grandi definisce come “gastronazionalismo”. A chi importa se la cultura alimentare tradizionale che promuovono si basa in parte su bugie, ricette inventate da conglomerati o cibo importato dall’America? Poche cose sono più rassicuranti e piacevoli di una vecchia signora che prepara i tortellini.

Le generazioni più vecchie lo sanno: la cucina italiana di oggi è una bugia

Non è sempre stato così. “I nonni sapevano che era una bugia”, mi dice Grandi, finendo l’ultimo prosecco. “La preoccupazione filologica sulla provenienza degli ingredienti è un fenomeno molto recente.” In effetti è difficile immaginare che le persone che sono sopravvissute alla seconda guerra mondiale mangiando castagne, come faceva mio nonno, si preoccupino di usare la guancia di maiale invece della pancia di maiale in una ricetta di pasta. O come dice Grandi, “La loro ‘tradizione’ stava cercando di non morire di fame.”

Alla domanda se l’ossessione per la cucina nazionale sia iniziata con i baby boomer come lui, cioè una generazione che non ha mai sperimentato la cucina italiana prima del dopoguerra, sorride: “In effetti, come molte altre cose, anche questa è colpa nostra.”

Tuttavia è confortante credere in tradizioni consolidate, sia del proprio paese che di altri.
I consumatori globali applaudono gli esperti del cibo italiano che sfornano libri, podcast e show televisivi in una ricerca spesso ossessiva di “autenticità”.

Carbonara con il prosciutto? Giammai!

Nel 2010, lo chef italiano Gino D’Acampo rimproverò la presentatrice televisiva britannica Holly Willoughby per aver detto che la carbonara potesse essere fatta con il prosciutto, dicendo “se mia nonna avesse le ruote sarebbe stata una moto”, la clip divenne virale.
Entrambi amiamo e odiamo la caricatura dello chef italiano ossessivamente purista.

Un grande business è cresciuto attorno al mito di un’antica tradizione culinaria incontaminata dalle moderne mode alimentari.
Esattamente come fanno le compagnie turistiche che organizzano lezioni di cucina con vere nonne italiane nelle loro case. “Ho la mia nonna italiana personale!” un amico britannico mi ha detto durante una vacanza in Toscana.

Le restrizioni sulla tradizione


Ma questo tipo di fissazione sulla tradizione è intrinsecamente restrittiva. Come sottolinea Grandi, una tradizione non è altro che un’innovazione di successo.

Mia nonna si chiede se non mi sono piaciuti i suoi biscotti. Ne ho mangiato solo uno. Mi presenta più opzioni: panforte, torrone, cantuccini.

I libri di cucina di una volta riportavano ricette diverse e non restrittive


Poi si alza lentamente e prende un libro di cucina del 1967 dalla credenza.
Lo sfogliamo insieme.
Ci sono insalate colorate di orecchiette con basilico, pinoli e pomodorini; sculture di spaghetti con polpette su vassoi scintillanti; pezzi di vitello arrosto in spiedini disposti ad arte sullo stesso piatto delle pappardelle.

Proprio come le carbonara degli anni ’60, queste ricette sono generose e non prescritte. Posso vedere in quelle pagine tutta la gioia per l’abbondanza di una nazione che lo aveva visto altro. Dalle file di pane e alle bombe, al piano Marshall, Vespe e pizze con mozzarella di bufala.

Il piacere della condivisone del cibo

In questa stessa casa, negli anni ’80, Nonna Fiore una volta serviva ad alcuni ospiti inglesi le lasagne, su richiesta di mio zio.


La lasagna era congelata, come si racconta. La vita quotidiana era piena di impegni e, comunque, non si facevano scrupoli nel servire un pasto pronto del supermercato; la gente poteva solo sognare un tale lusso durante la guerra.

Nessuno degli ospiti sospettava che non l’avesse fatta lei e tutti erano contenti, suo figlio italiano incluso.
Mi ricorda questo, poi mi guarda e mi strizza l’occhio.

L’articolo originale del Financial Times

Unesco, la cucina italiana candidata come patrimonio dell’umanità 2023