Editoriale: anche gli uomini possono essere vittime

Uomo, solitudine, storie vera
Uomo, solitudine, storie vera

Anna e Marco: una storia che rovescia i ruoli, dove il dolore ha voce maschile e la verità emerge tardi, ma con forza

Nel mio lavoro quotidiano, che si divide tra il giornalismo e la mia attività commerciale, mi trovo costantemente a contatto con il pubblico. Nel mio punto vendita, più che semplici clienti, incontro persone.
Persone vere, con storie, emozioni, domande.
Spesso tutto inizia con una chiacchierata pratica: faccio domande per capire meglio chi ho davanti, cosa cerca, quale prodotto può essere più adatto a lui o a lei. Ma poi, quasi senza accorgermene, il dialogo prende un’altra strada.
Le parole si fanno confidenze. Le esigenze commerciali lasciano spazio ai racconti di vita. E allora capita che i clienti si aprano, raccontino pezzi di sé, confidino dolori e fragilità che, forse, nemmeno a casa riescono a condividere.

Si crea un rapporto che va oltre l’aspetto commerciale: c’è empatia, fiducia, a volte persino amicizia. Lo dico sempre con onestà: non sono uno psicologo, ma ascolto. E a volte, quell’ascolto fa davvero la differenza.

La storia che voglio raccontarvi oggi non è inventata. Solo i nomi lo sono. Marco, il protagonista, è un mio cliente che conosco da tempo, una persona riservata, concreta, con una vita costruita sul lavoro, sul senso del dovere e sull’amore per la propria famiglia.

Marco è un dirigente di una grande multinazionale, abituato a risolvere problemi, a guidare uomini, a prendere decisioni importanti. Nella vita privata, è stato un marito presente, anche se spesso assorbito dagli impegni professionali. Ma non per questo assente. Mentre si dedicava al lavoro, costruiva anche una casa per la sua famiglia, pensava al futuro dei suoi tre figli, gestiva ogni dettaglio con la dedizione tipica di chi crede nei valori.

Sua moglie, Anna (anche questo è un nome di fantasia), lavora nel settore pubblico. Donna aperta, socievole, a volte forse troppo, come ha ammesso lo stesso Marco. Per trent’anni di matrimonio lui non ha mai avuto dubbi sulla sua fedeltà. Anche quando qualcuno cercava di metterlo in guardia, lui difendeva sua moglie con convinzione: «È solo un collega, un amico caro», diceva lei. E lui ci credeva. Per amore, per fiducia, per quella cieca lealtà che solo chi ama davvero può comprendere.

Ma non solo. Nei rari momenti in cui Marco provava a esprimere dubbi, piccole inquietudini, sensazioni che qualcosa non tornasse, veniva liquidato con disprezzo. «Sei pazzo», gli diceva Anna. E lui, innamorato, finiva per crederle. Si colpevolizzava, si zittiva, e tornava a fidarsi. Una strategia sottile e perversa: far passare il sospetto per follia, la legittima domanda per ossessione. Un meccanismo che ha un nome preciso: gaslighting.

Poi la verità è venuta a galla. Non una scappatella. Non un momento di debolezza. Ma una relazione parallela durata più di dieci anni. Dieci anni di doppia vita. Dieci anni in cui Marco non ha mai sospettato nulla — o meglio, ha preferito non vedere, anche perché ogni volta che cercava di aprire un varco nel muro, veniva ridicolizzato e respinto.

E allora qualcuno si chiederà: dov’era Marco? Marco c’era. Era a costruire. Era a proteggere. Era a credere. E soprattutto, era a dare fiducia. Una fiducia piena, sincera, mai messa in discussione nemmeno quando qualche segnale avrebbe potuto accendere un sospetto.
Era impegnato a reggere il peso di una famiglia, a garantire stabilità economica, futuro, presenza. Dava fiducia a Anna. Amava con discrezione, con costanza, senza chiedere nulla in cambio.
Senza mai immaginare che proprio dove avrebbe dovuto esserci complicità e rispetto, c’era invece distanza, freddezza, rifiuto.
Ogni gesto affettuoso veniva rifiutato con frasi sempre uguali, sempre prevedibili: “Sono stanca”, “Ho mal di testa”. Ogni tentativo di dialogo veniva minimizzato, banalizzato, liquidato con indifferenza.
E quella “mancanza di affetto” di cui Anna si lamentava, era forse solo una giustificazione per altro. Un modo per coprire ciò che Marco, per troppo amore e troppa fiducia, non voleva – o non riusciva – a vedere.

Quando Marco mi ha raccontato la sua storia, non cercava giudizio. Cercava solo qualcuno che lo ascoltasse. È stato un dialogo sincero, senza filtri, senza retorica. E in quel momento ho capito una cosa importante: non sempre le vittime sono donne. Esistono anche uomini feriti, traditi, umiliati. Esistono mariti che amano troppo, che non vedono, che si fidano, che vengono traditi nella forma più cruda della parola — e poi accusati anche di essere “pazzi” solo perché avevano intuito qualcosa.

Sono contento, umanamente, di aver potuto aiutare Marco. Di avergli impedito, forse, di commettere qualche sciocchezza dettata dal dolore, dalla rabbia, dalla delusione. A volte basta una parola, una pacca sulla spalla, un caffè condiviso in silenzio. E lui ha capito che non era solo.

Questa storia la racconto non per alimentare guerre di genere, ma per ricordare che il dolore non ha sesso. Che dietro la figura dell’uomo forte può nascondersi una sofferenza invisibile. E che anche loro, gli uomini, possono essere vittime. Vittime silenziose, spesso non ascoltate, a volte persino derise quando raccontano il proprio dolore.

In un tempo in cui si parla – giustamente – di parità, cominciamo a riconoscere tutte le sfumature del dolore umano. Anche quelle che, per convenzione, non si vedono.

Hai una storia vera da raccontare? Scrivici a redazione@calabriamagnifica.it.

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