Sono davanti a un foglio da riempire. Come riuscire a raccontare e a far conoscere il regista Giuseppe Petitto parlando solo della sua arte senza fare torto all’uomo? E dov’è il confine tra l’artista e la persona?
Se fosse un trafiletto potrei scrivere: “Era la mattina del 2 settembre di quattro anni fa quando si è interrotta la vita di un uomo.”
Una log-line – secca – senza l’ombra di un turbamento, tecnica. Fatta per riassumere una notizia che non vuole aggiungere informazioni, ma soprattutto non vuole coinvolgere il lettore con le emozioni.
O potrebbe essere la scena finale di un lungometraggio, quella di uno scontro tra un’auto e un camion. Di rimbalzo, il set di quella iniziale quella da cui si dipana una storia che parte da una tragedia.
Resta comunque un fotogramma in cui non si saprà mai quale sia stato l’ultimo pensiero, l’ultimo gesto, l’ultima immagine di chi a quello scontro non è sopravvissuto.
Ciò che rimane sulla scritta “The End” è un groviglio di lamiere e il dolore di colui che deve invece sopravvivere alla tragedia; di colui a cui tocca ricordare un volto, una risata, una telefonata di chi… improvvisamente non vedrà più.
Il destino regala bellezza, ma anche atrocità, e non sempre abbiamo potere decisionale.
Una vita da raccontare
Probabilmente Giuseppe Petitto avrebbe usato il fermo immagine sull’ultima scena, il suo ultimo ciak, quello del film della sua vita. Ma la sua cinepresa non potrà riprendere più nulla perché, proprio quel 2 settembre, per lui è apparsa la parola “fine” su una strada che aveva percorso tantissime volte. Una strada “maledetta” la 106, ma tanto amata da chi quei posti rappresentano stranamente il divertimento, la gioia.
La vita. Appunto.
Ed è di vita che è giusto parlare. Fra pochi giorni sarà l’11 luglio e Petitto avrebbe compiuto 50 anni. Una cifra importante. È un po’ il girare pagina per proseguire ciò che si è costruito. Si è ancora giovani a 50 anni e si può edificare, progettare e… creare.
Per celebrare ciò che ha fatto nel suo breve ma intenso cammino, occorre riavvolgere la bobina. Iniziare da ciò che è stato. Da ciò che è un artista, un regista, dalla capacità descrittiva e narrativa particolare. Il talento si percepisce ancora prima di “essere qualcuno”. L’estro non muore perché restano i filmati, le opere, a ricordare per sempre chi ha regalato emozioni e lasciato domande.
Questa è la fortuna degli artisti. Quella di potere essere ricordati e celebrati attraverso testimonianze, video, in questo caso. Artisti che non muoiono mai, avvolti come in un telo attraverso il quale appare nettamente il profilo.
Giuseppe Petitto ha iniziato in primi passi proprio a Catanzaro. Il suo giovane talento è emerso subito, così come la sua ironia, la battuta pronta, l’intelligenza. Ha assorbito da subito le tecniche come regista e poeta dell’immagine.
La produzione di immagini e messaggi
Ma Catanzaro non era sicuramente il luogo adatto per potere realizzare sogni. Quindi Petitto è partito alla volta di Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia che si erge di fronte Cinecittà e che ha visto passare tantissimi geni del cinema e della televisione. Una carriera che lo ha portato anche più lontano da Catanzaro. L’America lo ha apprezzato. Ma non un’America qualunque: è l’America di Martin Scorsese e di Arthur Penn che lo hanno amato, sottolineando la bellezza dei suoi documentari d’autore. Un endorsement pubblico fatto in occasione della premiazione per lo Human Rights Watch Nestor Almendros Award nel 2001, grazie al documentario su Gino Strada ed Emergency in Afghanistan.
Petitto ci ha illustrato ciò che l’uomo è capace di fare per profitto e per ottenere potere. Ci ha fatto vedere la guerra nella sua vera faccia volgendo lo sguardo verso chi la guerra la subisce: i bambini, principalmente. La vita dei più deboli, di chi non ha voce.
Un altro cameo riguarda la collaborazione con Wim Wenders per le riprese de “Il Volo”, in Calabria.
La sua produzione di video, lungometraggi, documentari e cortometraggi è importante e interessante.
Il documentario però non doveva essere il suo lavoro principale. In una intervista ha dichiarato che stava lavorando alla sceneggiatura di una fiction ed è stato quasi un testamento, purtroppo.
Il documentario è un lavoro di squadra in cui per la ricerca dei posti si dedica del tempo. Più realtà si incontrano e più profonda è la capacità di analisi, di cronaca, di descrizione della oggettività delle cose. Ogni figura ha la sua valenza, così il ruolo del regista si snatura e si fonde con altre figure professionali sul set. Alla fine, registi si è realmente in fase di montaggio, quando si deve trovare il linguaggio per trasmettere ciò che occhi hanno visto.
Nel documentario dedicato a Giacomo Mancini la quasi ora di racconti e pagine di Storia scorrono veloci. È il ritratto di un politico, un gigante, ma l’occhio attento di Petitto guarda anche l’uomo, il padre. Il nonno. Non si accontenta di disegnare idee politiche e progetti, si va oltre: c’è una società in evoluzione, con cambiamenti epocali e di transizione. Attraverso filmati d’epoca e interviste che partono dal dopoguerra a oggi, riesce a raccontare un uomo politico molto amato soprattutto dai cosentini, i suoi alti e bassi e una integrità di altri tempi. Nessun eccesso o dediche smielate. Ciò che si vuole fotografare è la realtà più oggettiva.
Il documentario, nel contesto della cinematografia italiana, è un ibrido perché la produzione cinematografica attuale in Italia, secondo Petitto, è un mondo depresso e deprimente. Ogni figura nel cast di un documentario è importante perciò il termine regista è illusorio. È essenziale descrivere la realtà, al regista tocca muovere la macchina da presa e sapere cogliere il vero. Impresa ardua. Una lezione tramandata dai suoi maestri come Rossellini, De Sica e Amelio.
Possiamo dire che il cinema italiano ha molto poco presente e un grande futuro alle spalle.
Il suo primo e ultimo film
Giuseppe non ha avuto il tempo di vedere realizzata la sua opera prima “Parlami di Lucy”. Un lungometraggio dal sapore thriller psicologico dove, ancora una volta, è l’infanzia e i suoi mostri a essere protagonista.
Un film essenziale in quasi tutto e perciò molto forte nell’impatto emotivo. Siamo sicuri che Petitto avrebbe apprezzato la cura di post-produzione. Tra i nomi del cast c’è anche Elio Gentile che si è occupato del montaggio del film, ma che è stato amico di Giuseppe sin dai primi passi nel mondo della realizzazione degli audiovisivi.
Buon compleanno ovunque tu sia e spero che Catanzaro sappia divulgare ciò che hai creato. Sarebbe quella la giustizia per una vita che non è stata così generosa. Ma sappiamo che le storie possono iniziare da un flash-back.
Ed è da lì che vorremmo ripartire. Il mondo deve sapere.