Riscoprire il passato nei sapori: l’U’suzu, un’antica delizia calabrese

U'suzu
U'suzu

L’U’suzu, una tradizione delle famiglie dell’interno calabrese, dalla macellazione festiva al raro prodotto autoconsumato

Nelle terre calabresi, l’U’suzu, conosciuto anche come gelatina, è un prodotto dal passato umile, nato con l’intento di valorizzare gli scarti della macellazione suina. Questa gelatina, ottenuta dalle cotenne, dalla carne di testa e piedi di maiale, e arricchita da lingua o trippa, rappresenta una testimonianza della saggezza culinaria delle famiglie calabresi che, un tempo, allevavano uno o più maiali ogni anno.

In passato, la macellazione era un evento festoso, una celebrazione comunitaria che coinvolgeva amici e vicini, sancendo l’appartenenza alla comunità familiare. Il vucciari, il macellaio, assumeva un ruolo di fiducia e prestigio, guidando e supervisionando le attività.

La preparazione dell’U’suzu richiedeva un’accurata attenzione alle operazioni preliminari. Le parti dell’animale venivano depilate, raschiate, sbiancate e poi bollite per diverse ore. La cura dedicata alla testa era fondamentale: asportare le parti molli, eliminare i grumi di sangue e pulire accuratamente gli orifizi. Lingua e trippa venivano sottoposte a trattamenti specifici. La carne veniva sminuzzata e il brodo filtrato e fatto riposare. La cotenna, la lingua e la trippa venivano tagliate a pezzetti, mentre testa e piedi venivano raschiati dalla carne cotta e dalla cotenna. Il brodo veniva poi rimescolato con aceto rosso e tutto veniva cotto nuovamente.

Dopo l’estrazione delle parti solide, il brodo rimanente veniva utilizzato per riempire vasi di vetro alimentare. La gelatina solidificava gradualmente, evitando che la parte solida si accumulasse sul fondo. Dopo 24 ore, la gelatina di maiale, tradizionalmente conservata con uno strato di grasso di maiale sulla parte superiore, era pronta. In passato, la terracotta era preferita al vetro per la conservazione.

Oggi, l’U’suzu è un prodotto raro sul mercato. Alcune piccole macellerie, che si distinguono per la loro attività artigianale, lo producono principalmente per l’autoconsumo all’interno delle famiglie, rispecchiando la tradizione culinaria calabrese che continua a vivere in poche botteghe.